Aree d’interesse
La fase di valutazione psicodiagnostica (assessment psicodiagnostico) è una componente fondamentale per la formulazione del caso e la condivisione del progetto di trattamento. Essa si conclude con una precisazione diagnostica che permette al clinico e al paziente di determinare i fattori causali e i fattori di mantenimento del disturbo e il piano terapeutico adeguato. Tale fase prevede lo svolgimento di un set di colloqui clinici che, con l’aiuto di batterie testali specialistiche, consentono un inquadramento migliore con una formulazione di una generica prognosi e di un piano di cura. La psicodiagnosi di basa sull’utilizzo della classificazione del DSM IV TR Manuale Statistico e Diagnostico dei disturbi mentali e dell’ ICD 10,strumenti comunemente utilizzati in ambito clinico. Essa tiene in considerazione i vari assi diagnostici comprese le condizioni mediche e sociali della persona. La fase di valutazione può condurre non solo ad una psicodiagnosi, ma anche ad un semplice inquadramento del problema con una formulazione dettagliata del piano di intervento o inquadramento del problema.
Al termine della fase di assessment è prevista una seduta di restituzione al paziente per la definizione del piano terapeutico individuale.
Nei casi in cui, al termine della fase di valutazione psicodiagnostica, il clinico valuti la presenza di un problema di moderata entità risolvibile in tempi medio brevi la proposta potrebbe essere quella di effettuare dei cicli di colloqui di sostegno. Tale proposta è adatta anche ai casi in cui vi è la presenza focale di sintomatologia attiva o di comportamenti invalidanti che debbono essere risolti in tempi brevi. In questi ultimo caso non è detto che il ciclo di colloqui di sostegno esaurisca il bisogno di cura della persona, in questa eventualità è buona norma seguire eventuali indicazioni per una psicoterapia. I colloqui di sostegno solitamente vengono proposti a cicli con un numero di incontri stabiliti e hanno obiettivi focali specifici ben definiti col pazienti prima di cominciare.
Nel caso di training specifici focalizzati vi sono i training per la gestione della sintomatologia ansiosa, i training di psicoeducazione per il disturbo ossessivo o per i famigliari e i pazienti affetti da disturbo bipolare, i training di gestione dell’ansia e i training di gestione della rabbia e degli agiti impulsivi.
Nello studio i clinici psicologi e psicoterapeuti effettuano psicoterapie con orientamento cognitivo comportamentale. La psicoterapia è un processo basato sulla relazione che si stabilisce tra il clinico e il paziente. In tale processo vengono stabiliti obiettivi generali e obiettivi specifici raggiungibili di volta in volta e verificabili. I cicli di psicoterapia tendono ad avere durate medie che vanno dai 3 mesi ai 24 mesi a seconda del tipo di disturbo trattato. Per questo motivo vi possono essere anche psicoterapie di durata maggiore. In seduta si lavora sulla modificazione del set di pensieri e di comportamenti che tendono ad invalidare la vita della persona che si rivolge al clinico. Fondamentale è anche un lavoro focalizzato sulla consapevolezza del proprio modo di funzionare e delle proprie emozioni unita ad un miglioramento della gestione emotiva e delle strategie di fronteggiamento delle situazioni di stress.
Principali tecniche utilizzate: ristrutturazione cognitiva, training sulle abilità sociali, strategie comportamentali, rilassamento, mindfullnes, emdr.
Cicli di incontri di sostegno ai genitori focalizzati sull’apprendimento di strategie comportamentali e di problem solving per la gestione delle problematiche legate alla genitorialità e alla gestione dei figli.
Incontri focalizzati sull’apprendimento di strategie comportamentali per implementare un’ efficace gestione dello stress.
Gruppi focalizzati sull’informazione e sulla formazione riguardante specifici disturbi: sintomi, cause, principali fattori di mantenimento, cure indicate (psicoterapie e farmaci), segnali di rischio e prevenzione delle ricadute. Tali gruppi sono dedicati principalmente al disturbo bipolare, ai disturbi d’ansia e al disturbo ossessivo compulsivo.
Gruppo di lavoro sulle tecniche di meditazione (mindfuness) volte a migliorare la consapevolezza e l’accettazione dei vissuti emotivi con un miglioramento delle abilità di gestione dell’attenzione focalizzata, della concentrazione e della regolazione emotiva
Teorie e tecniche terapeutiche di riferimento
Orientamento terapeutico nato dagli studi di Pavlov e di Skinner che hanno codificato il concetto di condizionamento classico e di condizionamento operante, paradigmi fondamentali per lo studio dell’apprendimento umano e per la cura dei disturbi legati all’evitamento comportamentale ed emotivo. La teoria comportamentista si arricchisce con gli anni con gli studi di Bandura relativi alla teoria dell’apprendimento e in seguito con A. Beck e A. Ellis con le teorizzazioni cognitiviste relative al ruolo della componente cognitiva nella gestione e nella modificazione dei comportamenti umani correlata con l’assetto emotivo. La ristrutturazione cognitiva e la ricerca di pensieri razionali alternativi diventa l’obiettivo nel trattamento dei principali disturbi psichici.
Recentemente le terapie cognitivo comportamentali definite di “terza generazione” hanno spostato il focus della loro attenzione anche sul polo emotivo concentrando l’attenzione sul miglioramento delle abilità di gestione emotiva e di auto regolazione inserendo tecniche quali la mindfulness e l’act. Il metodo della psicoterapia cognitivo comportamentale prevede un coinvolgimento attivo del paziente come protagonista della cura e un lavoro molto basato sull’assunzione di strumenti ed abilità volti a migliorare il proprio “funzionamento personale”.
Tecnica cognitiva fondata sull’utilizzo di diari centrati sull’analisi funzionale della correlazione tra interpretazioni cognitive (pensieri), comportamenti emessi ed emozioni nelle diverse situazioni problematiche. Tale tecnica prevede l’analisi dei pensieri disfunzionali e delle idee irrazionali con un tentativo di modificazione delle stesse e di creazione di un pensiero alternativo attraverso la discussione degli assunti e l’utilizzo del metodo socratico
Training focalizzato sul miglioramento delle abilità di comunicazione. L’obiettivo è quello di individuare le strategie per una buona comunicazione assertiva che è antagonista a comportamenti di tipo passivo o aggressivo che spesso inficiano le relazioni con gli altri.
Il training prevede una parte teorica e una parte pratica con role playing e video.
Pianificazione programmata col terapeuta per una riattivazione comportamentale centrata sulla ripresa o sul recupero del ruolo sociale.
Training di rilassamento focalizzato sulla percezione della tensione a livello muscolare dislocata nei diversi distretti corporei. Il training prevede l’utilizzo di supporti audio per i compiti a casa
Training di rilassamento a partenza mentale in cui lo stato di distensione viene indotto attraverso il lavoro sulle immagini mentali e sulla capacità di auto induzione di sensazioni di calore, distensione etc…
Tecniche ipnotiche applicate al rilassamento
Eye Movement Desensitization and Reprocessing.
Tecnica scoperta da Shapiro nel 1989 che si basa su movimenti oculari rapidi che provocano modificazioni nella elaborazione del ricordo traumatico da parte del paziente . La procedura prevede un’associazione con il lavoro preliminare sul ricordo che viene analizzato in tutte le sue dimensioni: emotiva, cognitiva e corporea.
Bowlby codificò differenti stili di attaccamento che si sviluppano nelle persone a seguito delle loro esperienze precoci con le figure di accudimento. Tra questi lo stile di attaccamento sicuro, insicuro disorganizzato, ambivalente, evitante. Il lavoro è quindi finalizzato alla comprensione del tipo di attaccamento del paziente e alla sua modificazione con l’obiettivo di sviluppare un attaccamento sicuro che permetta al paziente di vivere relazioni interpersonali più stabili.
Acceptance and Commitment Therapy . Terapia dell’accettazione dell’impegno. Codificata da Hayes nel 1999. Gli assunti fondamentali sono il raggiungimento di una flessibilità psicologica che consenta al paziente l’accettazione dei vissuti emotivi di stampo “negativo” e l’attuazione di comportamenti finalizzati al raggiungimento dei propri obiettivi in linea con i valori personali.
Mutuate dalle tecniche di meditazione orientale di matrice buddista le strategie di mindfulness vengono molto utilizzate soprattutto nei disturbi che prevedono un elevato livello di disregolazione emotiva e nella prevenzione delle ricadute della depressione. Prevedono costante pratica nell’auto osservazione dei propri vissuti in un atteggiamento non giudicante.
Strategia approntata da J. Young che prevede l’analisi degli schemi disfunzionali del paziente e il lavoro finalizzato alla loro modificazione attraverso l’utilizzo di tecniche esperienziali e di tecniche di discussione e ristrutturazione cognitiva
Forma di psicoterapia inizialmente sviluppata da Marsha M. Linehan per il trattamento del Disturbo Borderine di Personalità. La DBT combina le tecniche standard cognitivo-comportamentali per la regolazione emotiva con i concetti di tolleranza dello stress, accettazione e consapevolezza derivati dalle pratiche di meditazione buddista.
I ricordi traumatici derivano da esperienze traumatiche, inclusi i disastri naturali come terremoti, alluvioni, eventi violenti come il rapimento, gli attacchi terroristici, la guerra, la violenza sessuale, la violenza domestica, il lutto, la malattia, il bullismo, gli incidenti e l’abuso. I ricordi traumatici sono per loro natura fonte di stress fisiologico ed emotivo, interferendo con i meccanismi di coping esistenti.
Disturbi trattati
Gli attacchi di panico sono episodi di improvvisa ed intensa paura o di una rapida escalation dell’ansia normalmente presente. Sono accompagnati da sintomi somatici e cognitivi, quali palpitazioni, sudorazione improvvisa, tremore, sensazione di soffocamento, dolore al petto, nausea, paura di morire o di impazzire, brividi o vampate di calore.
Chi ha provato gli attacchi di panico li descrive come un’esperienza terribile, spesso improvvisa ed inaspettata, almeno la prima volta e si sviluppa immediatamente la paura di un nuovo attacco.
Il singolo episodio, quindi, sfocia facilmente in un vero e proprio disturbo di panico, per il meccanismo di “paura della paura”. La persona si trova rapidamente invischiata in un circolo vizioso che spesso comporta “agorafobia”, ovvero l’ansia relativa all’essere in luoghi chiusi o in situazioni dalle quali sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi, o nelle quali potrebbe non essere disponibile un aiuto, nel caso di un attacco di panico inaspettato.
Diventa così pressoché impossibile uscire di casa da soli, viaggiare in treno, autobus o guidare l’auto, stare in mezzo alla folla o in coda, e cosi via.
L’evitamento di tutte le situazioni potenzialmente ansiogene diviene la modalità prevalente ed il paziente diviene schiavo dei suoi attacchi di panico, costringendo spesso le persone a lui vicine ad adattarsi di conseguenza, a non lasciarlo mai solo e ad accompagnarlo ovunque, con l’inevitabile senso di frustrazione che deriva dal fatto di dipendere dagli altri, che può condurre ad una depressione secondaria.
La caratteristica essenziale del Disturbo di Panico è la presenza di attacchi di panico ricorrenti, inaspettati, seguiti da almeno 1 mese di preoccupazione persistente di avere un altro attacco di panico.
La persona si preoccupa delle possibili implicazioni o conseguenze degli attacchi di panico e cambia il proprio comportamento in conseguenza degli attacchi, principalmente evitando le situazioni in cui teme che essi possano verificarsi.
Per la diagnosi sono richiesti almeno due attacchi di panico inaspettati, ma la maggior parte degli individui ne hanno molti di più.
Gli individui con Disturbo di Panico mostrano caratteristiche preoccupazioni o interpretazioni sulle implicazioni o le conseguenze degli attacchi di panico. La preoccupazione per il prossimo attacco o per le sue implicazioni sono spesso associate allo sviluppo di condotte di evitamento che possono determinare una vera e propria Agorafobia, nel qual caso viene diagnosticato il Disturbo di Panico con Agorafobia.
Di solito gli attacchi di panico sono più frequenti in periodi stressanti. Alcuni eventi di vita possono infatti fungere da fattori precipitanti, anche se non indicono necessariamente un attacco di panico. Tra gli eventi di vita precipitanti riferiti più comunemente troviamo la separazione, la perdita o la malattia di una persona significativa, l’essere vittima di una qualche forma di violenza, problemi finanziari e lavorativi.
Disturbo d’Ansia Generalizzata
La persona con Disturbo d’Ansia Generalizzata sperimenta un costante stato d’ansia, spesso concernente piccole cose e caratterizzato da attesa apprensiva con anticipazione pessimistica di eventi negativi o catastrofici di ogni genere a natura. Oltre a questa eccessiva e incontrollabile preoccupazione per qualsiasi circostanza, si riscontrano anche sintomi somatici, quali sudorazione, vampate, batticuore, nausea, diarrea, bocca secca, nodo alla gola, ecc.. Talvolta vengono lamentati disturbi muscolo-scheletrici, come tensione (soprattutto alla nuca e al collo), tic, tremori, affaticabilità. La tensione muscolare può inoltre esprimersi con manifestazioni algiche diffuse o cefalee. I soggetti con questo disturbo sono spesso irritabili, irascibili, incapaci di rilassarsi e persino di mantenere la concentrazione; sono descritti come persone spesso irrequiete, distratte e impazienti. Frequentemente soffrono di insonnia e rimuginano sull’eventualità di disgrazie incombenti, per sé ed altri.
I bambini con Disturbo d’Ansia Generalizzato tendono a preoccuparsi troppo delle proprie prestazioni e, nel corso del disturbo, il nucleo della preoccupazione può spostarsi da un oggetto ad un altro.
Il disturbo – tendenzialmente cronico e di lunga durata – può facilmente essere accompagnato da depressione e portare ad un abuso di alcol, caffeina, stimolanti ed altre sostanze.
Per diagnosticare un Disturbo d’Ansia Generalizzato, la caratteristica essenziale del quadro – la presenza di preoccupazioni eccessive inerenti la maggior parte delle comuni attività del soggetto – deve occupare la maggior parte del tempo. La persona non è capace di controllare tale attesa apprensiva. Per la diagnosi sono inoltre necessari almeno tre dei seguenti sintomi:
• Irrequietezza o sentirsi “con i nervi a fior di pelle”
• Affaticabilità
• Irritabilità
• Difficoltà di concentrazione o vuoti di memoria
• Tensione muscolare
• Sonno irrequieto, insoddisfacente o difficoltà ad addormentarsi.
La fobia è una paura estrema, irrazionale e sproporzionata per qualcosa che non rappresenta una reale minaccia e con cui gli altri si confrontano senza particolari tormenti psicologici. Chi ne soffre, infatti, è sopraffatto dal terrore all’idea di venire a contatto magari con un animale innocuo come un ragno o una lucertola, o di fronte alla prospettiva di compiere un’azione che lascia indifferenti la maggior parte delle persone (ad esempio, il claustrofobico non riesce a prendere l’ascensore o la metropolitana). Le persone che soffrono di fobie si rendono perfettamente conto dell’irrazionalità di certe reazioni emotive, ma non possono controllarle.
L’ansia fobica si esprime con sintomi fisiologici come tachicardia, disturbi gastrici e urinari, nausea, diarrea, senso di soffocamento, rossore, sudorazione eccessiva, tremito e spossatezza. Si sta male e si desidera una cosa sola: fuggire!
Scappare, d’altra parte, è una strategia di emergenza. La tendenza ad evitare tutte le situazioni o condizioni che possono essere associate alla paura, sebbene riduca sul momento gli effetti della paura, in realtà costituisce una micidiale trappola: ogni evitamento, infatti, conferma la pericolosità della situazione evitata e prepara l’evitamento successivo (in termini tecnici si dice che ogni evitamento rinforza negativamente la paura). Tale spirale di progressivi evitamenti produce l’incremento, non solo della sfiducia nelle proprie risorse, ma anche della reazione fobica della persona, al punto da interferire significativamente con la normale routine dell’individuo, con il funzionamento lavorativo o scolastico oppure con le attività o le relazioni sociali. Il disagio diviene così sempre più limitante. Chi ha la fobia dell’aereo può trovarsi, ad esempio, a rinunciare a molte trasferte, e la cosa diventa imbarazzante se è necessario spostarsi per lavoro. Chi è terrorizzato dagli aghi e dalle siringhe può rinunciare a controlli medici necessari o privarsi dell’esperienza di una gravidanza. Chi ha paura dei piccioni non attraversa le piazze e non può godersi un caffè seduto ai tavolini di un bar all’aperto e così via.
La fobia sociale è un disturbo alquanto diffuso tra la popolazione. Secondo alcuni studi, la percentuale di persone che ne soffre va dal 3% al 13% e sembra che ne soffrano più le donne che gli uomini.
La caratteristica principale della fobia sociale è la paura di agire, di fronte agli altri, in modo imbarazzante o umiliante e di ricevere giudizi negativi.
Questa paura può portare chi ne soffre ad evitare la maggior parte delle situazioni sociali, per la paura di comportarsi in modo “sbagliato” e di venir mal giudicati.
Solitamente le situazioni più temute da chi soffre di fobia sociale sono quelle che implicano la necessità di dover fare qualcosa davanti ad altre persone, come ad esempio esporre una relazione o anche solo firmare, telefonare o mangiare; a volte può creare ansia semplicemente entrare in una sala dove ci sono persone già sedute, oppure parlare con un proprio amico.
Le persone che soffrono di fobia sociale temono di apparire ansiose e di mostrarne i “segni”, cioè temono di diventare rosse in volto, di tremare, di balbettare, di sudare, di avere batticuore, oppure di rimanere in silenzio senza riuscire a parlare con gli altri, senza avere la battuta “pronta”.
Infine, accade spesso che chi ne soffre, quando non si trova in una situazione temuta, riconosca come irragionevole la propria paura e tenda, conseguentemente, ad auto accusarsi e rimproverarsi per non riuscire a fare cose che tutti fanno.
La fobia sociale, se non trattata, tende a rimanere stabile e cronica, e spesso può dare luogo ad altri disturbi come la depressione.
Tale disturbo sembra esordire normalmente in età adolescenziale o nella prima età adulta.
Solitamente si distinguono due tipi di Fobia Sociale:
semplice, quando la persona teme solo una o poche tipologie di situazioni (per esempio è incapace di parlare in pubblico, ma non ha problemi in altre situazioni sociali come partecipare ad una festa o parlare con uno sconosciuto);
generalizzata, quando invece la persona teme pressoché tutte le situazioni sociali. Nelle forme più gravi e pervasive, si tende a preferire la diagnosi di Disturbo Evitante di Personalità.
Secondo il DSM-IV-TR (APA, 2000), il Disturbo da Stress Post-traumatico si sviluppa in seguito all’esposizione ad un evento stressante e traumatico che la persona ha vissuto direttamente, o a cui ha assistito, e che ha implicato morte, o minacce di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri. La risposta della persona all’evento comporta paura intensa, senso di impotenza e/o orrore.
I sintomi del Disturbo Post-traumatico da Stress possono essere raggruppati in tre categorie principali:
1. il continuo rivivere l’evento traumatico: l’evento viene rivissuto persistentemente dall’individuo attraverso immagini, pensieri, percezioni, incubi notturni;
2. l’evitamento persistente degli stimoli associati con l’evento o attenuazione della reattività generale: la persona cerca di evitare di pensare al trauma o di essere esposta a stimoli che possano riportarglielo alla mente. L’ottundimento della reattività generale si manifesta nel diminuito interesse per gli altri, in un senso di distacco e di estraneità;
3. sintomi di uno stato di iperattivazione persistente come difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, difficoltà a concentrarsi, l’ipervigilanza ed esagerate risposte di allarme.
I sintomi del disturbo da stress post traumatico possono insorgere immediatamente dopo il trauma o dopo mesi. Il quadro dei sintomi può essere inoltre acuto, se la durata dei sintomi è minore di tre mesi, cronico se ha una durata maggiore, o ad esordio tardivo, se sono trascorsi almeno 6 mesi tra l’evento e l’esordio dei sintomi.
Gli eventi traumatici vissuti direttamente possono includere tutte quelle situazioni in cui la persona si è sentita in grave pericolo come i combattimenti militari, aggressione personale violenta, rapimento, attacco terroristico, tortura, incarcerazione come prigioniero di guerra o in un campo di concentramento, disastri naturali o provocati, gravi incidenti automobilistici, stupri, ecc.. Gli eventi vissuti in qualità di testimoni includono l’osservare situazioni in cui un’altra persona viene ferita gravemente o assistere alla morte innaturale di un’altra persona dovuta ad assalto violento, incidente, guerra o disastro, o il trovarsi di fronte inaspettatamente a un cadavere.
Anche il solo fatto di essere venuti a conoscenza che un membro della famiglia o un amico stretto è stato aggredito, ha avuto un incidente o è morto (soprattutto se la morte è improvvisa e inaspettata) può far insorgere il disturbo da stress post traumatico.
Il trattamento richiede un intervento psicoterapeutico cognitivo-comportamentale, che faciliti l’elaborazione del trauma fino alla scomparsa dei sintomi d’ansia. Per l’elaborazione del trauma si è rivelato inoltre particolarmente utile l’EMDR.
Il disturbo ossessivo compulsivo è caratterizzato da pensieri, immagini o impulsi ricorrenti che innescano ansia e “obbligano” la persona ad attuare azioni ripetitive materiali o mentali.
Come il nome lascia intendere, il disturbo ossessivo compulsivo prevede l’esistenza sia di sintomi quali ossessioni e compulsioni. Almeno l’80% dei pazienti ossessivi ha ossessioni e compulsioni, meno del 20% ha solo ossessioni o solo compulsioni.
Le ossessioni sono pensieri, immagini o impulsi intrusivi e ripetitivi, percepiti come incontrollabili da chi li sperimenta. Tali idee sono sentite come disturbanti e solitamente giudicate come infondate o eccessive. Coloro che soffrono di disturbo ossessivo compulsivo possono temere oltremodo lo sporco, i germi e/o le sostanze disgustose; possono essere terrorizzati di procurare inavvertitamente danni a sé o ad altri (di qualunque natura: di salute, economici, emotivi, ecc.), di poter perdere il controllo dei propri impulsi diventando aggressivi, perversi, autolesivi, ecc.; Possono avere dubbi persistenti rispetto al sentimento che nutrono verso il partner o rispetto al proprio orientamento sessuale, anche se solitamente riconoscono che tutto ciò non è giustificato. Le ossessioni attivano emozioni sgradevoli e molto intense, quali paura, disgusto, colpa, con il conseguente bisogno di fare il possibile per rassicurarsi e gestire il proprio disagio.
Le compulsioni tipiche del disturbo ossessivo compulsivo, dette anche cerimoniali o rituali, sono comportamenti ripetitivi (come controllare, lavare/lavarsi, ordinare, ecc.) o azioni mentali (pregare, ripetere formule, contare) finalizzati a contenere il disagio emotivo provocato dai pensieri e dagli impulsi che caratterizzano le ossessioni sopra descritte. Le compulsioni diventano facilmente rigide regole di comportamento e sono decisamente eccessive, talvolta bizzarre agli occhi degli osservatori.
Il disturbo ossessivo compulsivo colpisce dal 2 al 3% delle persone nell’arco di una vita, indipendentemente dal sesso. Può esordire nell’infanzia, nell’adolescenza o nella prima età adulta, sebbene in molti casi i primi sintomi si manifestino molto precocemente, nella maggior parte dei casi prima dei 25 anni (il 15% dei soggetti ricorda un esordio intorno ai 10 anni).
Se il disturbo ossessivo compulsivo non viene adeguatamente curato, prima di tutto con una psicoterapia cognitivo comportamentale specifica, tende a cronicizzare e ad aggravarsi nel tempo.
La depressione è un disturbo molto diffuso tra la popolazione generale, ne soffre dal 10% al 15% della popolazione, con una frequenza maggiore tra le donne.
Il Disturbo Depressivo è associato ad una elevata mortalità. Fino al 15% degli individui con un Disturbo Depressivo grave muore per suicidio. Ciononostante, la maggior parte dei soggetti depressi non arriva ad avere ideazioni suicidarie o sintomi particolarmente gravi, ma lamenta sintomi che spesso non vengono neanche associati facilmente al disturbo depressivo (stanchezza cronica, malesseri fisici, apatia, astenia, calo del desiderio, irritabilità, ecc.).
La depressione (Singola o Ricorrente) è due volte più comune nelle femmine adolescenti e adulte che nei maschi adolescenti e adulti. Nei bambini prepuberi, maschi e femmine sono ugualmente affetti. Le frequenze negli uomini e nelle donne sono più elevate nel gruppo di età dai 25 ai 44 anni mentre le frequenze sono più basse sia per gli uomini che per le donne oltre i 65 anni.
Il Disturbo Depressivo può esordire ad ogni età, con un’età media di esordio intorno ai 25 anni. Alcuni hanno episodi di depressione isolati seguiti da molti anni senza sintomi, mentre altri hanno gruppi di episodi, e altri ancora hanno episodi sempre più frequenti con l’aumentare dell’età. Alcuni dati suggeriscono che i periodi di remissione generalmente durano più a lungo all’inizio del decorso del disturbo. Il numero di episodi precedenti predice la probabilità di sviluppare un successivo Episodio Depressivo.
Tra le possibili cause della depressione troviamo fattori di tipo psicosociale, ma anche di tipo genetico e biologico. Gli Episodi del Disturbo Depressivo spesso seguono un grave evento psicosociale stressante, come la morte di una persona cara, il divorzio, il trasferimento, cambiamenti nelle condizioni lavorative o l’inizio di un nuovo tipo di lavoro, la malattia di una persona cara, gravi conflitti familiari, cambiamenti nel giro di amicizie, cambiamenti di città, ecc.
Gli studi supportano l’ipotesi dell’ereditabilità della depressione, infatti i figli di genitori depressi presentano un rischio più elevato di sviluppare depressione. Tra le cause della depressione si hanno anche modificazioni a livello biologico, nella regolazione di alcune sostanze come neurotrasmettitori e ormoni.
Occorre tener presente che l’episodio depressivo non coincide con la diagnosi di disturbo depressivo, perché molte persone possono avere altalenanze del tono dell’umore, più o meno marcate, fino ad arrivare al vero e proprio disturbo bipolare, di cui la depressione può essere solo un sintomo, anche se solitamente è quello più sgradito al soggetto, che chiede aiuto in queste fasi.
Vi sono poi forme particolari di depressione, come la depressione post-partum, che hanno loro caratteristiche proprie. In ogni caso, è bene tener presente che i sintomi della depressione possono essere talvolta “mascherati”, al punto che nessuno si accorge del problema, talvolta neanche il soggetto stesso, che tende ad attribuire i sintomi a normale stranchezza, stress, nervosismo o problemi lavorativi, familiari o di coppia. E’ infatti piuttosto frequente il caso in cui la persona depressa non voglia riconoscere il proprio stato interno, che lo porta a vedere “tutto nero”, ad essere intollerante, irritabile, pessimista, nervoso, distante, ecc., e ritenga che esso sia solo la conseguenza di fattori esterni che andrebbero modificati (lavoro, coppia, denaro, figli, ecc.).
La distimia fa parte dei disturbi del tono dell’umore, dal momento che comporta una forma lieve ma tendente alla cronicità di depressione, una compromissione delle relazioni sociali e spesso dell’attività lavorativa.
Con il termine distimia, o disturbo distimico, ci si riferisce a quelle situazioni cliniche che presentano da almeno due anni continuativi i sintomi della depressione, anche se in maniera e misura attenuate rispetto a quelli della depressione maggiore. L’esordio della distimia può essere precoce (prima dei 21 anni) o tardivo (a 21 anni o più tardi); nella storia clinica, inoltre, non debbono esserci stati episodi depressivi maggiori, disturbo ciclotimico, episodi maniacali o ipomaniacali. Può capitare che, anche a causa della più lieve entità dei sintomi, la distimia venga diagnosticata tardivamente, ossia quando i suoi effetti negativi si protraggono da uno o due anni: è possibile infatti, che la persona che soffre di tale disturbo non ne sia totalmente consapevole, considerando le difficoltà ed i disagi come caratteristiche specifiche del proprio carattere e modo di essere, almeno fino al momento in cui essi vengano riconosciuti e diagnosticati correttamente da uno specialista.
All’interno di un quadro che preveda un umore tendenzialmente depresso per la maggior parte del tempo (quasi tutti i giorni, in base a ciò che viene riferito dalla persona interessata e riportato dagli altri), la diagnosi di distimia si può effettuare quando siano presenti almeno due tra i sintomi classici della depressione:
• Scarso appetito o iperfagia
• Insonnia o ipersonnia
• Scarsa energia o astenia
• Bassa autostima
• Difficoltà nel prendere decisioni o di concentrazione
• Sentimenti e vissuti di disperazione
E’ importante, affinché sia davvero diagnosticabile tale disturbo, che nel corso dei due anni interessati, la persona non sia mai stata priva dei sintomi indicati per un periodo pari a due mesi (ogni volta). Alla distimia possono associarsi altre psicopatologie come la depressione maggiore, l’ansia, l’abuso di sostanze, i disturbi alimentari, i disturbi di personalità.
Il disturbo bipolare (o depressione bipolare), pur non essendo particolarmente frequente, costituisce un problema serio e invalidante, che merita attenzione clinica e di cui i soggetti che ne soffrono sono spesso inconsapevoli.
Chi ne è affetto tende ad alternare fasi depressive seguite da fasi ipomaniacali o maniacali. In genere le fasi depressive del disturbo bipolare (detto anche bipolarismo) tendono a durare più a lungo di quelle maniacali o ipomaniacali: di solito durano da qualche settimana a qualche mese, mentre le fasi maniacali o ipomaniacali durano una-due settimane. A volte, nel disturbo bipolare, la transizione da una fase all’altra è rapida e immediata; altre volte, invece, è intervallata da un periodo di umore normale (eutimico). Talvolta il passaggio di fase è lento e subdolo, mentre altre volte può essere brusco e improvviso.
Le fasi depressive nel bipolarismo si caratterizzano per un umore molto basso, una sensazione che niente sia più in grado di dare piacere e una generale tristezza per la maggior parte del giorno. In linea di massima, le fasi depressive non si differenziano dagli episodi depressivi della depressione maggiore unipolare. Durante queste fasi, quindi, il sonno e l’appetito possono risultare facilmente alterati; la capacità di concentrazione e la memoria possono essere molto minori. A volte, sempre durante le fasi depressive, le persone affette dal disturbo bipolare (o depressione bipolare) pensano ricorrentemente al suicidio.
Le fasi maniacali nel bipolarismo, in alcuni casi, vengono generalmente descritte come l’esatto contratrio di quelle depressive, ovvero caratterizzate da un umore alquanto elevato, dalla sensazione di onnipotenza e da un eccessivo ottimismo. In queste fasi, i pensieri si succedono molto rapidamente nella mente del paziente affetto da disturbo bipolare al punto da diventare così veloci che risulta difficile seguirli. Il comportamento può essere iperattivo, caotico, fino al punto di rendere il paziente inconcludente. L’energia è talmente tanta che spesso il soggetto non sente la necessità di mangiare o di dormire e ritiene di poter fare qualsiasi cosa, al punto da mettere in atto comportamenti impulsivi, come spese eccessive o azioni pericolose, perdendo la capacità di valutare correttamente le loro conseguenze.
In molti casi, tuttavia, la fase (ipo)maniacale non si caratterizza per un eccesso di euforia e di grandiosità, bensì per un umore disforico, cioè per un senso costante di rabbiosità e ingiustizia subita, che si traduce in irritabilità e intolleranza e, spesso, in aggressività espressa, sempre senza valutare correttamente le conseguenze dei propri comportamenti.
I disturbi bipolari comprendono il Disturbo Bipolare di I tipo, il Disturbo Bipolare di II tipo, il Disturbo Ciclotimico e il cosiddetto Disturbo Bipolare Non Altrimenti Specificato, categoria diagnostica che raccoglie tutti quei soggetti con sintomi insufficienti per porre la diagnosi di uno dei disturbi sopra citati.
La psicosomatica è un ampio campo della patologia che si colloca a metà strada tra la medicina e la psicologia, in quanto indaga la relazione tra mente e corpo, ovvero tra il mondo emozionale ed affettivo e il soma. Nello specifico, ha lo scopo di rilevare e comprendere gli effetti negativi che la psiche, la mente, produce sul soma, il corpo.
I disturbi psicosomatici o somatoformi si possono considerare malattie vere e proprie che comportano danni a livello organico e che sono causate o aggravate da fattori emozionali.
I sintomi psicosomatici coinvolgono il sistema nervoso autonomo e forniscono una risposta vegetativa a situazioni di disagio psichico o di stress. Le emozioni negative, come il risentimento, il rimpianto e la preoccupazione possono mantenere il sistema nervoso autonomo (sistema simpatico) in uno stato di eccitazione e il corpo in una condizione di emergenza continua, a volte per un tempo più lungo di quello che l’organismo è in grado di sopportare. I pensieri troppo angosciosi, quindi, possono mantenere il sistema nervoso autonomo in uno stato di attivazione persistente il quale può provocare dei danni agli organi più deboli.
Disturbi di tipo psicosomatico possono manifestarsi nell’apparato gastrointestinale (gastrite, colite ulcerosa, ulcera peptica), nell’apparato cardiocircolatorio (tachicardia, aritmie, cardiopatia ischemica, ipertensione essenziale), nell’apparato respiratorio (asma bronchiale, sindrome iperventilatoria), nell’apparato urogenitale (dolori mestruali, impotenza, eiaculazione precoce o anorgasmia, enuresi), nel sistema cutaneo (la psoriasi, l’acne, la dermatite atopica, il prurito, l’orticaria, la secchezza della cute e delle mucose, la sudorazione profusa), nel sistema muscoloscheletrico (la cefalea tensiva, i crampi muscolari, il torcicollo, la mialgia, l’artrite, dolori al rachide, la cefalea nucale) e nell’alimentazione.
Sintomi psicosomatici sono comuni nelle varie forme di depressione e in quasi tutti i disturbi d’ansia, ma esistono dei disturbi psicosomatici veri e propri in assenza di altri sintomi di natura psicologica, che rendono più difficile, per il soggetto, imputare il malessere fisico ad un problema psicologico piuttosto che ad un malfunzionamento organico.
I disturbi psicosomatici più comuni sono l’ipocondria e il disturbo da somatizzazione
La caratteristica essenziale della ipocondria è la preoccupazione legata alla paura di avere, oppure alla convinzione di avere, una grave malattia, basata sulla errata interpretazione di uno o più segni o sintomi fisici.
Perché si possa parlare di ipocondria, ovviamente, una valutazione medica completa deve avere escluso qualunque condizione medica generale che possa spiegare pienamente i suoi segni o sintomi fisici (per quanto possa talora essere presente una condizione medica generale concomitante).
L’aspetto principale dell’ipocondria è che la paura o la convinzione ingiustificate di avere una malattia persistono nonostante le rassicurazioni mediche.
I sintomi della ipocondria sono riconducibili a preoccupazioni nei confronti di: funzioni corporee (per es. il battito cardiaco, la traspirazione o la peristalsi); alterazioni fisiche di lieve entità (per es. una piccola ferita o un occasionale raffreddore); oppure sensazioni fisiche vaghe o ambigue (per es. “cuore affaticato”, “vene doloranti”).
La persona attribuisce questi sintomi o segni alla malattia sospettata ed è molto preoccupata per il loro significato e per la loro causa. Nell’ipocondria, le preoccupazioni possono riguardare numerosi apparati, in momenti diversi o simultaneamente.
In alternativa ci può essere preoccupazione per un organo specifico o per una singola malattia (per es. la paura di avere una malattia cardiaca). Visite mediche ripetute, esami diagnostici e rassicurazioni da parte dei medici, tipiche di chi soffre di ipocondria, servono poco ad alleviare la preoccupazione concernente la malattia o la sofferenza fisica. Per esempio, un soggetto preoccupato di avere una malattia cardiaca non si sentirà rassicurato dalla ripetuta negatività dei reperti delle visite mediche, dell’ECG, o persino della angiografia cardiaca.
I soggetti con l’ipocondria possono allarmarsi se leggono o sentono parlare di una malattia, se vengono a sapere che qualcuno si è ammalato, o a causa di osservazioni, sensazioni, o eventi che riguardano il loro corpo.
Per chi soffre di ipocondria, la preoccupazione riguardante le malattie temute spesso diviene per il soggetto un elemento centrale della immagine di sé, un argomento abituale di conversazione, e un modo di rispondere agli stress della vita.
Alla base del Disturbo di Somatizzazione vi sono lamentele fisiche ricorrenti e molteplici, della durata di diversi mesi o anni, che portano chi ne è affetto a richiedere le cure dei medici, ma che apparentemente non sembrano avere una causa organica.
Secondo il Manuale dei Disturbi Mentali, una persona è affetta da questo disturbo se lamenta nel corso della sua vita sintomi dolorosi (per es., cefalea, mal di schiena, articolazioni doloranti), due sintomi gastrointestinali (per es., diarrea, nausea), un sintomo sessuale che non sia il solo dolore (per es., dolori mestruali, indifferenza sessuale, disfunzioni dell’erezione) e un sintomo pseudo-neurologico (per es., sintomi di conversione, come deficit della coordinazione o dell’equilibrio, paralisi o ipostenia localizzate, difficoltà a deglutire o nodo alla gola). Le lamentele fisiche devono iniziare prima dei 30 anni, manifestarsi per almeno alcuni anni e non possono essere pienamente spiegate con nessuna condizione medica generale conosciuta o con gli effetti diretti di una sostanza. Se si manifestano in presenza di una condizione medica generale, le lamentele fisiche o la menomazione sociale e lavorativa che ne consegue risultano eccessive rispetto a quanto ci si aspetterebbe dalla anamnesi, dall’esame fisico e dai reperti di laboratorio. Il disturbo ha un decorso cronico ma fluttuante, che raramente presenta remissioni complete.
I pazienti tendono a presentare i loro problemi in modo drammatico, vago o esagerato, o come parte di una lunga e complicata storia clinica. Ansia e depressione sono molto comuni e possono costituire la ragione per cui giungono all’osservazione psichiatrica. Possono esserci una vasta gamma di problemi interpersonali e comportamentali, quali assenteismo, scarso rendimento sul lavoro, difficoltà coniugali, comportamento impulsivo e antisociale, minacce e tentativi di suicidio.
Si definisce insonnia lo stato in cui una persona percepisce il proprio sonno come insufficiente o insoddisfacente; in altre parole quando il paziente non riesce a trarre beneficio dal riposo perché dorme troppo poco oppure dorme male.
L’insonnia fa parte delle dissonnie, disturbi dovuti ad alterazioni di ritmo, quantità e qualità del sonno, così come le apnee notturne e le ipersonnie (narcolessia).
Un altro gruppo di disturbi del sonno è quello delle parasonnie, caratterizzate dalla presenza di un evento anomalo e indesiderato nel corso del sonno, o nelle fasi di passaggio tra la veglia ed il sonno. Sono parasonnie il sonnambulismo, il sonniloquio (parlare durante il sonno), gli incubi, l’enuresi (minzione involontaria), il bruxismo (digrignare i denti), la sindrome delle gambe senza riposo (movimenti involontari e prolungati delle gambe, che impediscono l’addormentamento).
L’insonnia non è una malattia univoca ma si presenta in tanti modi diversi, ecco perché clinicamente viene classificata tenendo conto di almeno tre parametri: la sua durata, le possibili cause e la tipologia.
Durata dell’insonnia: varia da paziente a paziente e può subire modificazioni nel corso della vita di uno stesso individuo. Può esserci insonnia occasionale, transitoria o cronica.
Cause dell’insonnia: distinguiamo l’insonnia primaria o non organica (quando il paziente è sano e non ci sono cause apparenti che giustifichino l’insonnia) e secondaria (quando l’insonnia è dovuta ad altre malattie fisiche o altri problemi psicologici, come la depressione)
Tipo di insonnia: distinguiamo l’insonnia iniziale (quando il paziente fatica ad addormentarsi), centrale (caratterizzata da frequenti e sostenuti risvegli durante la notte) e tardiva (caratterizzata da risveglio mattutino precoce). Esiste anche un’insonnia soggettiva, ovvero la percezione di dormire poco e male, nonostante i dati oggettivi dimostrino il contrario e la persona dorma più o meno regolarmente.
Negli ultimi 20 anni sono state messe a punto strategie d’intervento non farmacologico per la cura dell’insonnia che si sono rilevate molto efficaci sia nel migliorare la qualità del sonno degli insonni sia nel facilitare la sospensione dell’utilizzo dei sonniferi.
La tensione muscolare, la mente che si riempie di pensieri al momento di coricarsi e le cattive abitudini di sonno sono le principali cause dell’insonnia.
La balbuzie è una disfluenza verbale in cui l’aspetto verbale è caratterizzato da ripetizioni, prolungamento di fonemi o di sillabe e da pause tese, variabili o udibili nel corso dell’espressione che causano disagio a chi le produce in conseguenza di una dinamica di interazione sociale.
Secondo il DSM IV-TR viene descritta come:
1. Un’anomalia del normale fluire e della cadenza dell’eloquio, caratterizzata dal frequente manifestarsi di uno o più dei seguenti elementi:
● Ripetizioni di suoni o sillabe
● Prolungamento dei suoni
● Interiezioni
● Interruzione di parole
● Blocchi udibili o silenti
● Circonlocuzioni
● Parole emesse con eccessiva tensione fisica
● Ripetizione di intere parole monosillabiche
2. L’anomalia di scorrevolezza interferisce con i risultati scolastici o lavorativi, oppure con la comunicazione sociale.
3. Se è presente un deficit motorio della parola o un deficit sensoriale, le difficoltà nell’eloquio vanno al di là di quelle di solito associate con questi problemi.
La balbuzie è un fenomeno comune a tutti i popoli ma assente o quasi nei popoli primitivi, rilevante nei paesi ad elevato sviluppo sociale, più frequente tra gli studenti universitari e di classe sociale medio-superiore rispetto a quelli di condizione socio-culturale inferiore.
L’età di insorgenza è tra i tre e i cinque anni, la comparsa durante la pubertà ha sicuramente dei precedenti episodi nell’infanzia.
Più colpito è il sesso maschile: l’ 80% dei maschi contro il 20% delle femmine.
I Tic sono descritti come movimenti rapidi, ripetitivi, per lo più stereotipati, improvvisi che si manifestano con gesti, per lo più, incompleti che dapprima avevano lo scopo di allentare la tensione, ma degradano in un’azione priva di significato e scopo.
Si distinguono due tipi di tic:
-Tic motori (ammiccamenti, smorfie, scatti del capo e/o degli arti, innalzamento delle spalle, contrazioni muscolari addominali
-Tic sonori (colpi di tosse, schiocco della lingua, soffi, mugolii, brevi vocalizzi).
I movimenti dei tic sono variabili e influenzabili dall’ambiente circostante.
Si distinguono per forma, intensità, frequenza e possono coinvolgere varie parti del corpo
I disturbi di personalità non sono caratterizzati da specifici sintomi o sindromi, ma dalla presenza esasperata e rigida di alcune caratteristiche di personalità.
La personalità è stata definita in molti modi, ma si può dire che sia l’insieme delle caratteristiche, o tratti stabili, che rappresentano il modo con il quale ciascuno di noi risponde, interagisce, percepisce e pensa a ciò che gli accade.
Si può anche dire che la personalità sia il modo stabile che ciascuno di noi si è costruito, con le proprie esperienze ed a partire dal proprio temperamento innato, di rapportarsi con gli altri e con il mondo.
I tratti che la compongono rappresentano le caratteristiche del proprio stile di rapporto con gli altri: così esiste per esempio il tratto della dipendenza dagli altri, o della sospettosità, o della seduzione, oppure quello dell’amor proprio.
Normalmente questi tratti devono essere abbastanza flessibili a seconda delle circostanze: così in alcuni momenti sarà utile essere più dipendenti o passivi del solito, mentre in altri sarà più funzionale essere seducenti.
I disturbi di personalità sono caratterizzati dalla rigidità e dalla presentazione inflessibile di tali tratti, anche nelle situazioni meno opportune. Ad esempio, alcune persone tendono sempre a presentarsi in modo seducente indipendentemente dalla situazione nella quale si trovano, rendendo così difficile gestire la situazione; altre persone, invece, tendono ad essere sempre talmente dipendenti dagli altri che non riescono a prendere autonomamente proprie decisioni.
Solitamente tali tratti diventano così consueti e stabili che le persone stesse non si rendono conto di mettere in atto comportamenti rigidi e inadeguati, da cui derivano le reazioni negative degli altri nei loro confronti, ma si sentono sempre le vittime della situazione e alimentano il proprio disturbo.
I disturbi di personalità sono stati classificati, secondo la più diffusa classificazione psicopatologica, in tre categorie:
Disturbi caratterizzati dal comportamento bizzarro:
Disturbo paranoide di personalità: chi ne soffre tende ad interpretare il comportamento degli altri come malevolo, comportandosi così sempre in modo sospettoso.
Disturbo schizoide di personalità: chi ne soffre non è interessato al contatto con gli altri, preferendo uno stile di vita riservato e distaccato dagli altri.
Disturbo schizotipico di personalità: solitamente è presentato da persone eccentriche nel comportamento, che hanno scarso contatto con la realtà e tendono a dare un’assoluta rilevanza e certezza ad alcune intuizioni magiche.
Disturbi caratterizzati da un’alta emotività:
Disturbo borderline di personalità: solitamente chi ne soffre presenta una marcata impulsività ed una forte instabilità sia nelle relazioni interpersonali sia nell’idea che ha di sé stesso, oscillando tra posizioni estreme in molti campi della propria vita.
Disturbo istrionico di personalità: chi ne soffre tende a ricercare l’attenzione degli altri, ad essere sempre seduttivo e a manifestare in modo marcato e teatrale le proprie emozioni.
Disturbo narcisistico di personalità: chi ne soffre tende a sentirsi il migliore di tutti, a ricercare l’ammirazione degli altri e a pensare che tutto gli sia dovuto, data l’importanza che si attribuisce.
Disturbo antisociale di personalità: chi ne soffre è una persona che non rispetta in alcun modo le leggi, tende a violare i diritti degli altri, non prova senso di colpa per i crimini commessi.
Disturbi caratterizzati da una forte ansietà:
Disturbo evitante di personalità: chi ne soffre tende a evitare in modo assoluto le situazioni sociali per la paura dei giudizi negativi degli altri, presentando quindi una marcata timidezza.
Disturbo dipendente di personalità: chi ne soffre presenta un marcato bisogno di essere accudito e seguito da parte degli altri, delegando quindi tutte le proprie decisioni.
Disturbo ossessivo compulsivo di personalità: chi ne soffre presenta una marcata tendenza al perfezionismo ed alla precisione, una forte preoccupazione per l’ordine e per il controllo di ciò che accade.